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12 ottobre 2019

testo critico di igino schraffl

per la mostra di maurizio pellegrin

Ogni artista dalla personalità forte parte da un pensiero che traduce in termini estetici e poi elabora uno stile formale che nell’opera esprima in modo coerente il suo progetto artistico – senza di questo non sarebbe un artista vero, ma un artigiano dell’arte. Periodicamente nasce un artista che parte in qualche modo da zero: dall’arte primitiva, dagli elementi costitutivi materiali o formali, da impellenti istanze etiche, politiche, sociali e simili, da un  pensiero originale o da premesse filosofiche nuove. Tra i vari filoni che si sono formati nella seconda metà del secolo scorso, uno si è consacrato alla memoria, in parte parallelamente a un processo culturale di rinvangamento della storia, per un altro verso a seguito delle nuove scoperte delle neuroscienze e delle scienze cognitive e, infine, come reazione all’avvento di una digitalizzazione pervasiva di qualsiasi tipo di dati empiricamente acquisiti dal mondo reale e il conseguente spostamento verso un mondo virtuale parallelo o per lo meno uno stato di ampia indistinzione di entrambi, che ha determinato una perdita di concretezza fisica delle cose. Infatti, questo regime normativo, dovuto all’impatto delle nuove tecnologie e responsabile del fenomeno culturale detto società dell’informazione, ha suscitato una ritorsione massiccia – le persone sono portate ad aggrapparsi alle cose più di prima. Nel campo dell’arte gli oggetti concreti stanno assumendo un’importanza crescente, a dispetto dell’idea prevalente in precedenza secondo cui la fotografia, la riproducibilità tecnica delle opere d’arte (W. Benjamin) e le immagini in movimento avrebbero causato la perdita dell’“aura”. Le cose hanno ricuperato la loro aura in conseguenza del fatto che la natura incorporea della digitalizzazione, delle cose trasformate in astratti bit, ha indotto il bisogno di ricerca di cose dotate di una forte corporeità. Nell’arte, il realismo si è riaffacciato in una forma speculativa insieme a una corrispondente ontologia basata sugli oggetti. Ora le posizioni neorealistiche stanno prevalendo sulle precedenti posizioni dell’analisi discorsiva, del costruttivismo e del soggettivismo. Di conseguenza, le opere d’arte incorporano elementi materiali e immateriali, cose/oggetti e concetti, aspetti reali e simbolici.
Volendo distinguere tra oggetti e cose, si può definire i primi come concettualmente contrapposti al soggetto e le ultime come entità investite di affetti e persino emozioni e, quindi, destinate a entrare nell’immaginario individuale e collettivo e anche a essere portatrici di valori. Intendendo, invece, gli oggetti in senso concreto come oggetti quotidiani, la distinzione perde di senso. Forse la valorizzazione degli oggetti o delle cose ha a che fare con l’idea che di per sé non sono falsi o fallaci, ma che lo possono diventare semmai a causa della perfidia dei soggetti che li usano per scopi riprovevoli. Inoltre, agli oggetti si attribuisce a volte una fedeltà più solida e duratura di quella di un cane: loro non ci abbandonano, rischiano solo di essere messi da parte o distrutti quando non “servono” più. In ogni caso hanno una vita molto più lunga di quella di chi li crea e di chi li usa; possono perciò trasmettere testimonianze, affetti e valori di generazione in generazione. Considerando la silente angoscia indotta dalla caducità dell’uomo in confronto alla “eternità” delle cose, fa apparire queste ultime come degne di conservazione e di trasmissione, per cui anche il collezionismo in questa ottica può apparire come una competizione contro la morte – anche contro la morte degli oggetti che il collezionismo salva dall’invio alla discarica dei rifiuti o da altri tipi di distruzione.
Diversamente dal collezionismo che si limita alla mera conservazione, l’artista può non solo prolungare la già lunga vita degli oggetti, ma attraverso la manipolazione creativa dilatarne il significato proiettandolo nella sfera del simbolico e farne testimoni della storia, vettori di memoria, supporti di identità, strumenti di ricerca della verità e specchi dell’essere. Per Maurizio Pellegrin le cose non sono quelle delle sensazioni fisiche primarie, ma quelle appartenenti a un mondo di oggetti già pensati, anzi antropologicamente e storicamente caratterizzati, spesso fortemente connotati. L’operazione dell’artista assemblatore non si limita, tuttavia, alla ricerca storica o al collezionismo, perché il primato spetta all’interpretazione della realtà. Le cose hanno percorso un lungo tragitto storico, differenziandosi a seconda delle culture e tradizioni della specie umana, assumendo di volta in volta significati diversi, subendo tecniche diverse di fabbricazione, incorporando simboli di vari gradi, alti e bassi. Di conseguenza, le cose possono raccontare chi siamo, come viviamo, che cosa ci piace – sono, quindi, buoni testimoni della memoria.

La memoria è uno strumento della razionalità che permette all’uomo di frapporre tra il proprio io e il non-io della realtà un distacco, trasformando l’istinto aptico dell’”afferrare” gli oggetti con le mani in un processo identificativo di categorizzazione e simbolizzazione, teso a “cogliere” le cose con la mente. Ciò consente di superare l’irriflessività magica primitiva e la paura fobica, attraverso un procedimento che si potrebbe definire di de-demonizzazione, in un pensiero logico che riesce a interpretare la realtà in senso corretto. In un ambito più ristretto dell’attività mentale di interpretazione del mondo, quello dell’arte, l’uomo unisce la fantasia mitopoietica della mentalità magica con la cultura in  senso lato e in molti casi perfino con la scienza. Infatti, una pausa riflessiva crea il distacco dall’abbandono orgiastico e dall’eccesso di pathos. E questo lo si osserva già nelle prime manifestazioni artistiche, ad esempio nelle pitture rupestri, dove ancora in una fase culturale di comunità animistiche la memoria ha organizzato dei materiali oggettivandoli e stilizzandoli, cioè esprimendoli linguisticamente, naturalmente in senso figurativo. Lo spettatore, grazie al lavoro fatto dall’artista con la memoria, riesce così a offrire un insieme identitario, che può spaziare dal personale al collettivo, in modo da guidare l’occhio dall’osservazione di natura fotografica alla costruzione di una visione narrativa.
I materiali inanimati, quando sono manipolati dall’uomo come atto di empatia con la natura, subiscono sempre un ampliamento di significato e provocano un’estensione dell’io, come avviene già con l’abbigliamento e gli ornamenti, ma anche con gli altarini dei féticheur o sciamani animisti, strumenti al servizio dell’elevazione dell’uomo verso la sfera spirituale. L’arte, di conseguenza, appropriandosi di pezzi della realtà esterna all’uomo, vive di una dicotomia funzionale – rappresentazione del non-io ed estensione dell’io – con una proiezione verso una realtà superiore a quella immediatamente materiale.

Maurizio Pellegrin appartiene alla rara categoria degli artisti intellettuali e occupa un posto singolare nel panorama attuale: troppo realista in filosofia per essere un concettuale tipico, troppo cosmopolita per indulgere a un’arte vernacolare (semmai la sua nativa Venezia gli ha offerto un ponte verso un Oriente zenizzante), troppo culturalmente ed esteticamente raffinato per sconfinare in esperienze Pop o Minimal. Opera sottilmente sul crinale tra realismo e astrazione. Dal mondo nella sua datità trae i materiali che lascia anche assomigliare al dato fenomenico, ma ne scaturisce un’energia che ne decreta la vitalità e il fascino. Non fotografa la realtà, ma si inventa un realismo evocativo, evitando l’illustrazione dell’oggetto. L’effetto delle immagini così composte è altamente estetico, comunicativo e catartico, tanto da non richiedere la conferma del confronto con la realtà stessa.
Ampi assemblage composti da oggetti o loro frammenti formano icone grandiose, non semplici archivi o cataloghi di una memoria parziale. Nelle opere il mondo non è né illustrato né narrato, ma intuito e mostrato come si dà in senso fenomenologico ed esistenziale. Attraverso il suo raffinato operare Pellegrin porta un nuovo ordine nella realtà effettuale, caotica e dispersiva, delle cose incorporandovi anche elementi di disordine, caso e istintualità. Un brano di realtà riassuntivo di un pezzo di mondo fenomenico, ricostruito nella memoria, appare in una forma che colpisce per la sua forza “ontologica”: è come se gli oggetti imparassero a esistere nel nuovo ordine in cui l’artista li fa dialogare nello spazio. E con essi, attraverso l’impatto dell’opera, è l’uomo che impara a essere, oltre che nello spazio, nel tempo grazie alla memoria che gli dà il senso della continuità e un’identità.

L’operazione di Pellegrin, quindi, non si risolve in un’archeologia della modernità perché non cade in quella oggettualità feticista che caratterizzava la prassi artistica di alcune correnti degli anni ’20 alla ricerca di uno stile “universale”. Qui l’interesse si concentra, invece, sulla struttura delle cose e sulla loro trasformazione in simboli dell’immaginario e non in testimonianze delle scale valoriali del reale. Pellegrin, con un esercizio percettivo costantemente affinato, va alla scoperta delle cose per indagare le idee, gli affetti e i simboli che vi sono depositati, per poi integrarli nel contesto culturale ed estetico attuale. Trasfondendo nelle cose idee, fantasie e affetti, egli vi reperisce i caratteri che fanno di esse non semplici strumenti tecnici, ma elementi di comunicazione tra gli uomini della stessa generazione e tra le generazioni, e di continuità tra individui e comunità, oltre che tra cultura e natura. Nel portare oggetti disparati in sistemi organizzati è implicito un processo di semplificazione e di autorità che rende il reale un insieme di complessità ordinata. Ciò presuppone che nella mente dell’artista si svolga un processo di categorizzazione di tipo nuovo, diverso dalla codificazione ammessa dagli elementi prima di essere manipolati e assemblati. Si tratta, quindi, di un vero e proprio processo di traduzione mentale prima, e culturale poi, in quanto comporta anche operazioni di detabuizzazione. Le relazioni di traduzione così operate possono far compiere allo spettatore omologhi processi di traduzione secondo i pattern mentali suoi propri, non senza liberare, a livello psicologico, affetti più rasserenanti che conturbanti.
Così nelle opere di Pellegrin il punto di vista, di solito assegnato al soggetto, passa alle cose che sembrano avere la funzione di spiegare il mondo suscitando nello spettatore una sana curiosità. All’osservatore è, quindi, lasciata la libertà di tradurre le cose in analogie psicologiche che gli consentono di diventare “padrone” delle cose che affollano nella psiche individuale l’inconscio, che non è solo occupato dai segni di un soggettivismo arbitrario, ma è anche condizionato da processi incontrollabili originati nell’abisso collettivo. Infatti, nel sogno e nel mito l’io scompare. L’osservatore è, quindi, indotto a ripercorrere dinamicamente quel rituale a cui assomiglia il processo creativo dell’artista che, da mago moderno, esprime nell’opera l’esperienza di sé rifugiandosi nell’arte.
Questo processo è alla base della creazione artistica la cui essenza si riesce a ricostruire, andando a ritroso, anche in questa mostra. Oggetti – a volte anche disparati per loro natura propria e di provenienza anche diversa in senso spaziale e temporale –  quadri e fotografie costituiscono la materia prima che viene manipolata e organizzata attraverso un’esplorazione mnestica e identificativa insieme, pur ricuperando l’immediatezza del dato fenomenico. Dal punto di vista formale, la collocazione nello spazio degli elementi così usati si potrebbe paragonarla al modo in cui gli antichi combinavano le stelle in costellazioni, cioè figure geometriche, attribuendo loro spesso contenuti mitologici, ma rendendole anche compatibili con le esigenze della formulazione matematica astronomica. La logica della giustapposizione formale materiale è di tipo insieme associativo e tensionale: gli elementi sono posti, a distanze ben calcolate, in un campo poligonale di tensioni, in cui ogni elemento possiede un quanto di energia tensionale, creando un sistema di corrispondenze che genera un senso di armonia microcosmica come piccolo anello della grande catena dell’essere, in cui prevale l’orientamento razionale di un’umanità eroica, realista in filosofia, opposta al primitivismo magico e anche al moderno pensiero negativo.
Da un altro punto di vista, questi oggetti, avendo perduto la loro primaria funzione di utilità ed essendo così ridotti a una condizione di utilità secondaria, possono essere considerati oggetti residuali o quasi-oggetti – secondo la terminologia proposta dal filosofo francese Michel Serres – come una specie di oggetti ausiliari o trigger, che acquistano una significatività quando gli spettatori interagiscono con loro. In quanto frammenti di qualcosa che è stata altrove e prima, tuttavia, esistono ora di proprio diritto dopo essere passati attraverso il processo trasformativo dell’artista, pur mantenendo ancora un ricordo della loro utilità originaria. Essi acquisiscono un nuovo valore estetico anche grazie al contesto complesso, e talora persino contraddittorio, in cui sono inseriti.
I pezzi – oggetti interi o parti di questi – usati daPellegrin sono frammenti di una realtà, il risultato di un’esplosione di un’unità caduta a pezzi, un’unità di cui l’artista raccoglie i frantumi per ricomporli in un ordine nuovo. Dato che Pellegrin non rifiuta l’ontologia, gli oggetti tratti dalla realtà sono, cioè esiste un mondo reale indipendentemente dall’io pensante. Inoltre, essere non si riferisce solo alle infinite categorie delle cose, ma soprattutto alla loro sostanza in senso aristotelico. Volendo attribuire l’essere a qualcosa, occorre identificare le sostanze in quanto enti. Comunque, le categorie che si riferiscono all’essere delle cose e, quindi, alla loro sostanza, ci consentono di comprendere la struttura profonda della realtà.

Siccome nella freccia del tempo il presente rappresenta una frazione minima e il futuro è ancora ignoto, la nostra identità soggettiva – che è comunque multipla, anzi a volte caleidoscopica – e collettiva è data dalla memoria, più precisamente dall’eco che riverberano nella nostra mente le esperienze di vita passata. È la memoria il ricettacolo di eventi e immagini equivalenti, nomi e idee scelti e immagazzinati come una documentazione dell’esperienza, che ci consente di concepire un mondo ordinato. La reazione, individuale e collettiva e, quindi, anche degli artisti, che deriva dagli stimoli della memoria, si traduce in espressioni linguistiche o visuali come mezzo per dominare le impressioni. e la somma di queste espressioni si deposita nei documenti materiali e immateriali dell’umanità. La memoria collettiva come fatto identitario si colloca al livello del linguaggio e dei simboli condivisi. Le tracce lasciate dagli eventi, dalle esperienze e dagli oggetti sono una specie di engrammi che esprimono un’energia potenziale  (o pro-energetica) di ordine mnemonico. Questi engrammi costituiscono anche simboli che si prestano all’afferrare, anche mentalmente, se sono espressi in forma concreta (significativamente in tedesco be-greifen e l’inglese to grasp esprimono questo dualismo mano-mente), umanizzando così la realtà. Come già accennato, in questa prospettiva evolutiva, l’arte si colloca tra la proiezione magica e il pensiero logico discorsivo. L’artista con il suo agire simbolico produce immagini che sono fine a sé, ma che trascendono la quotidianità creando spazio al pensiero (Denkraum, una zona di ragionamento diversa dall’immediatezza e dalla mancanza di distacco della mente primitiva) introducendo lo spettatore in una realtà spirituale, come già descritto da Kandinskij nel suo testo programmatico “Lo spirituale dell’arte”.
Che l’essere in quanto esistere non sia un vero predicato in senso kantiano è un concetto che anche la filosofia analitica odierna ha fatto proprio, definendo l’esistenza come quantificatore (ad esempio, l’espressione “una montagna d’oro” significa che vi sono due concetti – montagna e oro – riferiti a un x). Molta speculazione del pensiero contemporaneo ruota intorno alla prova dell’esistenza delle cose. Una proposta interessante in questo senso è offerta da W. V. Quine che si basa sulla teoria del linguaggio in quanto strumento di ordine da applicarsi all’esperienza empirica allo scopo di formulare previsioni affidabili, giungendo alla conclusione che l’esistenza è sempre relativa a una teoria ”necessaria” o perlomeno utile per gli schemi concettuali in essa impliciti. In base a una simile “relatività ontologica”, il mondo  si spopola di spiriti e fantasmi e la questione dell’essere si riduce alla logica della quantificazione.
Strawson e Wiggins introdussero il concetto dell’essere connesso al tempo, che ribalta la concezione platonica e ribadisce il riferimento al quadro spazio-temporale in cui è radicato anche il linguaggio. Dalla questione dell’identificazione dei particolari spazio-temporali (come è possibile che la stessa cosa sia oggi, sarà domani e sia stata allora?) attraverso il cambiamento si è giunti alla visione di Gottlieb Frege, secondo cui l’esistenza è concettualmente connessa all’identità. Ciò consente di superare il relativismo ontologico – solo ciò che dura nel tempo conferisce unità e identità sostanziale – e il concetto di identità permette di distinguere gli oggetti sostanziali da quelli fittizi. E’ sull’identità che si basa il quantificatore che conferisce esistenza. Ed è ancora l’identità l’elemento necessario per tradurre le descrizioni della realtà in logica predicativa. Questi concetti sono compiutamente espressi dallo slogan coniato da Quine: no entity without identity. Quindi, in questa ontologia logica non esiste oggetto che non abbia un’identità e non possono avvenire nominazioni di oggetti senza criteri di identità.

Passando al campo dell’arte, se l’intento dell’artista è quello di mettere la realtà in un ordine logico, questi criteri di identità si sostanziano in procedure di identificazione. Gli attributi delle cose ne determinano anche le funzioni che, secondo Frege, risiedono nella profondità nelle cose. Potendosi attribuire numerosi predicati allo stesso oggetto, ne consegue che le funzioni sono entità incomplete (o “insature”, come le definisce Frege).
Rimane da risolvere il problema di definire che cosa significa identità. In senso grammaticale si tratta di una relazione, ma di una relazione che deve soddisfare vari criteri – simmetria, riflessività, transitività ed altri – e rimane sempre aperta la questione: uguale a che cosa? Volendo trasferire questi concetti, si può arguire che per Pellegrin gli oggetti da lui “incontrati” nello spazio e nel tempo della sua ontologia quotidiana, sono particolarmente interessanti perché si tratta di elementi già forniti di una specie di carta d’identità, ma anche suscettibili di essere ulteriormente “quantificati” in senso ontologico. Non si tratta allora per Pellegrin di effettuare una selezione di enti, dati come essenti almeno in quanto esistenti, a scopo per così dire enciclopedico, ma di procedere a una scelta estetica razionale con l’obiettivo di comporre un sistema del mondo, in cui l’intenzionalità dell’artista impone alle cose una valenza ontologica: devono imparare a essere, almeno nel senso di un esistere estetico nello spazio e nel tempo, recepito attraverso i sensi.
Per l’arte, come per l’estetica in generale, a differenza di quanto è il caso della matematica o del linguaggio, l’esistenza delle cose, del mondo – cioè che l’essere abbia la forma della presenza sensibile – è essenziale. Empirismo e realismo sono, dunque, le basi su cui anche Pellegrin costruisce il suo operare, che può benissimo fare a meno di indagare le questioni formali dell’essere: in termini di rappresentazione conta la presenza estetico-ontologica. I correlati presentazione e rappresentazione e, parallelamente, presenza e memoria non hanno necessità di essere tenuti distinti. Nell’immagine si fondono presenza, memoria e assenza delle cose in quanto la memoria si appiattisce sulla presenza perché diventa presenza ideale.

È, quindi, questa la chiave per interpretare l’arte di Maurizio Pellegrin: ”memoria come identità”, per cui sarebbe troppo riduttivo definirlo semplicemente artista della memoria  tout court. Infatti, i tipici rappresentanti dell’arte della memoria, diffusasi nel corso della rielaborazione storico-culturale delle tragiche vicende del XX secolo, si limitano a una specie di archiviazione del dato fenomenico dei materiali raccolti come input per la riflessione politico-culturale, spesso con un intento etico-didattico. Il nostro artista va molto oltre: attraverso il binomio memoria-identità riesce a fornire una chiave di accesso all’ontologia della realtà, offrendo spunti di riflessione atti a rispondere alle aspettative poste dall’uomo moderno all’arte in relazione  ai suoi problemi esistenziali. Per questo aspetto egli fa parte di un’élite di artisti che non si limitano a venire incontro alla domanda di oggetti di consumo estetico, anche se per converso al riguardo le sue creazioni non cadono nemmeno in quel calderone di prodotti del cattivo gusto militante, dall’estetica banale o da volgare design industriale, bollati da Philippe Sollers come esempi immorali di non-stile, destinati – come recita il titolo di un suo libro – alla “società del cattivo gusto”. Pare quasi che Pellegrin sia impegnato in una campagna di riabilitazione del bello, nella quale lo soccorre la capacità ludica e l’ironia come forma di lucida intelligenza. Perciò, rifuggendo dalla maniera e ponendo tutta l’attenzione allo stile, il bello acquista un certo carattere di sacralità secolarizzata, come era espressa già ai primordi dell’arte. (Igino Schraffl)

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