Trieste Contemporanea dicembre 2002 n.10/11
 
Nel 'laboratorio' di Kiev, le prime antologie
 di letteratura yiddish moderna
Dovid Bergelson, tra tradizione e rivoluzione

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di Daniela M. Kromer

Dovid Bergelson, scrittore yiddish-russo tra i più noti e autorevoli del Novecento, nacque a Ocrimovo, in Ucraina nel 1884. Nel 1952, all’età di 68 anni, dopo circa quattro anni di prigionia, morì vittima della polizia di Stalin. La sua attività di scrittore e letterato, iniziata con la pubblicazione nel 1909 della novella Arum Vokzal (Al deposito ferroviario), e conclusa dai due drammi teatrali Ihk vel lebn (Voglio vivere) e Printz Reuveni la cui stesura risale rispettivamente al 1941 e 42, si è spiegata nell’arco di circa trenta anni. Un periodo questo relativamente breve e tuttavia straordinariamente denso di eventi drammatici. Lo sfasciamento progressivo dell’impero russo, il drammatico e cruento sommovimento rivoluzionario del 1905 e quello ben più epocale del 1917 sono eventi dei quali Bergelson è stato testimone diretto negli anni della gioventù. In quella fase di frenetico trapasso, la società russa e più ancora quella ebraico-russa stava mutando radicalmente i propri connotati.
La popolazione ebraica insediata nello sthetl, il borgo della tradizione e la piccola cittadina a maggioranza ebraica, andava modificando le proprie forme di esistenza, dopo che, e già dalla fine dell’Ottocento, si erano verificate possenti ondate migratorie verso gli Stati Uniti che avevano spopolato cittadine e villaggi ebraici. Nello stesso arco di tempo si registrarono trasformazioni demografiche rilevanti, con la progressiva concentrazione della popolazione ebraica nelle grandi città e nei grandi centri industriali. Il progressivo allontanamento dall’ortodossia religiosa e dai valori tradizionali fu una delle conseguenze di tali mutamenti. Le nuove generazioni vennero proiettate nelle turbolenze politiche, sociali ed economiche di una Russia, ormai alla soglia della modernità.
Bergelson visse immerso in queste trasformazioni, assistette alla guerra civile che seguì al crollo dell’impero russo e fu testimone del bagno di sangue inflitto da Pletura e dai suoi seguaci cosacchi all’ebraismo ucraino (tra il 1917 e il 1921 si contarono 1236 pogrome in 530 città e cittadine russe, durante i quali vennero uccisi oltre 60.000 ebrei). Egli stesso, nella cittadina di Hejsin, sopravvisse fortunosamente ad un pogrom, nascosto in una cantina, mentre a un metro dall’impazzare del saccheggio, veniva al mondo suo figlio Lev. Sulla scia di una massiccia emigrazione intellettuale che comprese gran parte dell’intellighenzia russa e yiddish-russa, e in considerazione della situazione di forte precarietà, di pericolo incombente e di indigenza negli anni postrivoluzionari, Bergelson decise di lasciare la Russia. Si trasferì nel 1921 a Berlino dove risedette, con la famiglia, fino al 1933.
Gli anni berlinesi furono contrassegnati da un susseguirsi di eventi drammatici che segnarono profondamente la Germania di Weimar: nel 1922 l’assassinio di Walther Rathenau, il primo ebreo a ricoprire la carica di ministro degli affari esteri; seguirono due catastrofi finanziarie di immani proporzioni, nel 1923, il dollaro in Germania era quotato a 4,2 bilioni di marchi, nel 1929 seguì un nuovo, disastroso tracollo. Il disfacimento della democrazia tedesca venne sanzionato nel 1925 dalla presidenza del generale Von Hindenburg. Il clima politico da instabile divenne arroventato. Il suolo tedesco non sembrava offrire prospettive stabili o anche solo accettabili agli emigranti russi, e yiddish-russi, che abbandonarono la Germania in una emigrazione di ritorno già nel 1925-26. Bergelson rimase a Berlino fino all’ultimo momento, testimone dell’ascesa inarrestabile del nazionalsocialismo. Nel 1933 tornò in Unione Sovietica stabilendosi a Mosca dove per alcuni anni alternò una intensa attività letteraria, a frequenti viaggi all’interno dell’Unione Sovietica. Negli anni della NEP, la Nuova Politica Economica (1921-1935), godette di una relativa sicurezza. Bergelson coronato e protetto da una fama internazionale e dalla sua scelta di campo pro-sovietica, fu per circa sette anni al centro della vita culturale yiddish-sovietica. Tra i fondatori del comitato antifascista, Bergelson nel 1941, in seguito all’attacco nazionalsocialista dell’Unione Sovietica, con Shlomo Michoels, il grande attore del teatro yiddish (Gosset) di Mosca e Ilja Ehrenburg, noto giornalista e scrittore ebreo di lingua russa, stilò un appello a sostegno del governo sovietico nella lotta al nazionalsocialismo che venne inviato via radio in tutto il mondo. Seguirono gli anni tremendi del conflitto mondiale e la deportazione a Tashkent, assieme a gran parte degli intellettuali di lingua yiddish. Rientrato a Mosca Bergelson assistette allo smantellamento definitivo delle istituzioni ebraiche, dalla chisura del giornale di lingua yiddish Der Emes, (La Verità) allo scioglimento del Comitato antifascista nel 1948, all’assassinio, nello stesso anno, di Shlomo Michoels. Gli arresti di intellettuali, scrittori e poeti di lingua yiddish si susseguirono; il 12 gennaio 1949 Bergelson venne arrestato dalla polizia segreta del KGB e deportato in un campo di concentramento. Il 12 agosto 1952 - quel giorno avrebbe compiuto 68 anni - Bergelson fu fucilato assieme ad altri scrittori e intellettuali yiddish.

La parabola esistenziale di Bergelson ha giocato un ruolo non trascurabile nel suo divenire un cronista del trapasso, del mutamento, l’interprete più raffinato del tempo della transizione. L’instabilità, l’incertezza del distacco, il traumatico progredire sull’orlo della storia tra un mondo che non esiste più e uno che non esiste ancora, sono stati esistenziali emblematici del periodo e insieme metafore potenti di una fine ineluttabile nella scrittura di Dovid Bergelson.
Questo autore che la critica del tempo ha definito un erede di Cecov, un impressionista dai glaciali colori invernali, e dalla chiarezza limpida di un monacale scrittore di cronache, è uno dei grandi innovatori della lingua letteraria yiddish.
Ma vediamo in che senso si possa parlare del modernismo di Dovid Bergelson.
Uno scrittore d’atmosfere In un volume apparso a New York nel 1946, Nachman Maizel, critico, editore e giornalista yiddish, tra i più attivi nell’Ucraina dei primi due decenni del Novecento, esamina l’opera letteraria di Dovid Bergelson, del quale era stato amico negli anni di gioventù. Nel suo saggio, Maizel rivela la straordinaria dinamica della genesi dei romanzi di Bergelson: egli scriveva molto lentamente e dilatava il processo creativo per anni prima di dare alla luce uno dei suoi romanzi o una delle sue novelle. Lo spunto iniziale nasceva sempre dalla percezione sensibile di una atmosfera. Bergelson era come attraversato da essa, sentiva lo spessore, la densità dell’aria, la qualità termica, ottica e olfattiva della stagione e all’interno di quell’atmosfera, che portava dentro di sé per lungo tempo, lasciava che prendessero forma le figure, i personaggi, le creature che lo avrebbero accompagnato per anni, dipanando le loro storie fittizie che nel corso del tempo finivano per assumere per l’autore stesso e per i suoi amici, testimoni e uditori dei suoi scritti, i contorni e la consistenza di vite reali.
In una lettera al critico letterario Shlomo Niger (8 luglio, 1910) Bergelson scrive a proposito dell’atmosfera delle sue storie “(…) alla lunga essa ha un tale effetto sul mio spirito che diventa impossibile continuare a sostenerla. Lo strano struggimento che nasce da quell’atmosfera diventa il colore caratteristico del mondo che attornia il protagonista della storia. Il mio scopo a quel punto è quello di intessere quell’atmosfera alla vita e agli eventi che hanno luogo intorno a lui e, per così dire, dentro di lui. (…).” Probabilmente è dovuta a questo modo inusuale di procedere l’impareggiabile realizzazione di atmosfere esangui e struggenti, di luoghi dal lucore abbacinante, di paesaggi dell’anima, e inverni del sentimento. Le scelte lessicali di Bergelson tendono a creare una visione che rimanda a una pittura dai dettagli precisi, spesso dettagli inusuali, anche se quotidiani, ma non si tratta, per intenderci, della pittura fiamminga olandese, piuttosto direi, richiama alla mente certa pittura espressionista, densa di atmosfera e di emozioni. A rinforzare l’impressione di omogeneità, contribuisce il ricorrere costante di termini, espressioni, addirittura di frasi intere, uno strumento stilistico, la ripetizione, che crea un senso di infinita, statica circolarità. Sarebbe tuttavia riduttivo considerare Bergelson un creatore di atmosfere.

Lingua e scrittura Da una lettura contrastiva che ponga come punto di riferimento la lingua dei cosiddetti ’classici’ della moderna letteratura yiddish, Mendele Moykher Sforim, I.Lamed Peretz o Sholem Aleichem emerge in modo inequivocabile l’originalità e la forte sostanza innovativa della scrittura di Bergelson. Egli trasforma radicalmente lo yiddish, una lingua dalla chiara connotazione orale, basti pensare allo yiddish di Sholem Aleichem, ricco di una vocalità prorompente, una verbosità sfrenata e coinvolgente, una lingua dalla gestualità sonora, che come nello Skaz russo tende alla caratterizzazione, alla digressione progressiva, al tessuto vivace del parlato. Ebbene, questa stessa lingua nei romanzi di Bergelson diviene una lingua eminentemente letteraria, un prodotto rarefatto e artificiale ma soprattutto, remoto; uno yiddish che non è più voce ma sembra soltanto rimandare un’eco della voce. Di una costruzione e ri-costruzione si tratta: lo yiddish di Bergelson è una revisione dello yiddish ancora enfatico degli illuministi, purificato da ogni stratificazione folcloristica e popolareggiante, distillato in una forma sobria eppure sofisticata, elegante, piena di sfumature sia che descriva il declino dello shtetl o il mondo volgare dei nuovi ricchi, il declino della religione o i pensieri segreti di un uomo solo.
La struttura rigorosa del ductus, la sua sintassi anomala, del tutto idiosincratica, segnano una cesura nuova nei confronti della lingua vernacolare. Bergelson pone inoltre il lettore in un corsetto rigido, gli impone attenzione e una distanza ferrea dal suo oggetto; la lettura è talvolta difficile, straniante.
In molti dei suoi racconti e nel suo romanzo più noto, Noch alemen, l’autore utilizza lo stile indiretto, in termini più precisi, il discorso indiretto libero, un parlare in terza persona che allontana il parlante dal suo detto, quasi l’enunciazione di una frase fosse l’articolazione archiviale di un testo arcaico.

Il Romanzo La distanza non è l’unica caratteristica della lingua di Mirele, la protagonista femminile del romanzo Noch alemen. La lingua è ridotta all’essenziale, atrofica, punteggiata da silenzi, come rimandasse continuamente ad una frammentazione, ad una perdita del linguaggio ormai vicino all’afasia, all’impossibilità stessa di comunicare. A una lettura attenta Noch alemen rivela un aspetto inatteso di modernità, non soltanto infatti è il primo romanzo yiddish con una eroina donna, ma è anche il primo romanzo yiddish dell’alienazione, del male di vivere esistenziale. Ognuno dei suoi protagonisti è una monade isolata. Il loro linguaggio spesso inceppato, rotto a metà di un pensiero, come preso da una ritrosia inspiegabile, è un linguaggio che rientra dentro se stesso prima ancora d’essersi esplicitato. Gdalje Hurwitz inizia a parlare a sua figlia Mirele per dirle qualcosa di molto importante ma si ferma alla prima parola, si distrae, torna indietro, tace. Sua madre Gitele, chiusa in un silenzio impenetrabile incarna l’atrofia pressoché totale della parola, una rinuncia senza rimedio alcuno.
Mirele stessa, sembra scontrarsi di continuo davanti alla barriera delle parole che anziché veicoli di significato sembrano precluderne la possibilità stessa, il suo parlato è intessuto di monosillabi, frasi rotte a metà ferme tra enunciato e un pensiero in cerca ancora di una sua forma. Il lettore passa, senza rendersene conto, da una realtà ’riferita’ e dunque in qualche modo oggettiva, alla visione soggettiva del protagonista senza mediazione alcuna. Questo procedimento che accomuna peraltro alcuni grandi autori del Novecento da Dostojevski, a Joyce, permette al lettore di scivolare nella psiche del personaggio stesso, di sentire con la sua sensibilità, di vedere attraverso i suoi occhi.
Staticità e soggettivismo estremo sono concetti chiave nella lettura di questo romanzo dall’atmosfera cecoviana, ma anche il realismo minuto nelle descrizioni della quotidianità degli eventi, la localizzazione della storia in un piccolo borgo anonimo, dunque dalla valenza ancora più simbolica, la realizzazione visionaria di una natura che ha finito di essere natura per divenire una metafora dell’anima. Per questo Noch alemen diventa un capolavoro moderno, il cui punto di riferimento è da una parte un modernismo intellettuale a noi molto vicino, dall’altra l’umanitarismo ebraico.
Già presente nei suoi primi scritti, l’umanitarismo convive con l’impegno politico dello scrittore; ad esso Bergelson farà riferimento esplicito negli ultimi suoi scritti, i due drammi teatrali Ich vel lebn e Printz Reuveni nei quali, come nel suo appello del 1941, diverrà l’ultima barriera contro la barbarie.

Il gruppo di Kiev Le sue prime novelle tornavano regolarmente indietro, spedite al mittente da editori poco amanti del rischio, accompagnate da commenti oscillanti tra una velata ammirazione e la convinzione che quei testi fossero “troppo moderni” per lettori di lingua yiddish. A poco più di venti anni Bergelson aveva già scritto due dei racconti che rimarranno tra i suoi più famosi, senza riuscire a pubblicarli. Il secondo, Arum Vokzal, appena rifiutato da una rivista yiddish di Kiev, finì col vedere la luce a Varsavia, grazie all’intervento di un gruppo di amici dell’autore, decisi a pubblicarlo, se necessario, anche a spese proprie. Quell’impresa di ragazzi intraprendenti, festeggiata da una sbornia clamorosa, segnò l’inizio della folgorante carriera letteraria di Dovid Bergelson. Il racconto fu recensito entusiasticamente, Bergelson segnalato come l’astro nascente della moderna narrativa di lingua yiddish.
Negli anni che seguirono il circolo di amici era andato trasformandosi in un gruppo di letterati, scrittori, poeti, critici letterari ed editori. Le discussioni accese avevano lasciato posto a incontri regolari a casa Bergelson durante i quali si “lavorava” alla nuova letteratura in lingua yiddish. Bergelson aveva mantenuto l’abitudine di leggere quel che andava scrivendo al suo pubblico di scrittori e poeti, modernizzatori del verso, della prosodia e della prosa yiddish. Quegli incontri ebbero luogo per alcuni anni e accompagnarono l’intera scrittura del romanzo Noch alemen. La grande casa alto borghese di Kiev era divenuta una fucina letteraria. Le menti migliori dell’Ucraina di lingua yiddish - Der Nister, Leib Kvitko, Peretz Markish, Jechezkel Dobrushin, Dovid Hofshtein - che erano parte della cerchia di Bergelson pochi anni dopo divennero noti come il “Gruppo di Kiev”.
Come scrisse più tardi Nachman Mayzel nei suoi scritti memorialistici, la storia di quelle produzioni letterarie è anche la storia di una generazione di scrittori ubriachi di libertà, presi dall’euforia di una società in trasformazione profonda, nel periodo più fervido ed ebolliente della storia russa. Quegli anni miracolosi tra il 1907 e il 1920-21 oltre ad esser stati testimoni della rivoluzione bolscevica, di pogrom e guerra civile, e aver visto l’emancipazione delle minoranze, l’equiparazione giuridica dei cittadini ebrei e non ebrei, avevano dato vita alla più massiccia e straordinaria produzione letteraria del secolo di lingua yiddish e ad un fiorire senza precedenti di tutte le arti.
Progetti di vasto respiro furono concepiti a casa Bergelson, tra essi le prime antologie di letteratura yiddish moderna, le miscellanee Eygns [Nostro] (Kiev 1918,1920) e Oyfgang [Ascesa] (Kiev 1919) pietre miliari della storia letteraria yiddish che hanno segnato un momento di trapasso e di intensa modernizzazione. Non soltanto Bergelson ha attratto attorno a sé un numero sempre crescente di intellettuali, egli è stato un catalizzatore di energie creative e un trait d’union tra intellettuali, editori e il nascente mondo della stampa yiddish. Una delle sue non trascurabili capacità risiedeva inoltre nello scoprire e incoraggiare nuovi talenti letterari, a lui dobbiamo il debutto di una delle grandi poetesse di questa lingua, Kadya Molodowsky, che pubblicò le sue prime liriche nella raccolta Eygns (Vol. 2, Kiev 1920).
Una delle rare testimonianze rimaste di quelle riunioni, del senso di quel laboratorio di idee e di letteratura e del ruolo svolto da Bergelson in quelle occasioni è una lettera aperta scritta nel 1940 a Dovid Bergelson dallo scrittore yiddish Der Nister:”in primo luogo ho imparato da voi il rapporto con la letteratura”.



Daniela M. Kromer
 
 

 

 
 
 
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